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- Io ò, tu ài, egli à ed essi ànno...
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Ma ài trovato i documenti originali del '700 dell'Accademia della Crusca in qualche avventuroso viaggio tra gli scaffali di una biblioteca là dove nessun uomo è mai giunto prima oppure ài la grammatica del Petrocchi datata 1900 in versione originale?
"Agli studiosi, a quelli che in ogni manièra consulterànno il dizionario, dirò qui alcune ragioni sostanziali e i mièi intendimenti ..."
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Orbene, signori e signore, credo sia giunto il momento di svelare il mistero. Vi ho (vi ò) lasciati anche troppo sulla graticola ad attendere.
Cominciamo dalla premessa: l'indicativo presente del verbo avere, come tutti sappiamo, si scrive così:
Io ho
Tu hai
Egli / Ella ha
Noi abbiamo
Voi avete
Essi hannoChiediamoci però: che ruolo ha quell'acca nelle prime tre persone singolari (ho, hai, ha) e nella terza plurale (hanno)?
L'acca in quella posizione ha valore puramente diacritico ? serve cioè a differenziare la scrittura del verbo avere dalle parole o congiunzione, ai preposizione articolata, a preposizione semplice e anno sostantivo ? e non si pronuncia mai nel parlato, a meno che non si stia usando un tono scherzoso, caricaturale o volutamente errato.
Insomma, si scrive "io ho" e si pronuncia /'io o/; idem per "tu hai" grafico contro /tu 'ai/ fonetico, "egli ha" vs. /'egli a/ e infine "essi hanno" che si dice /'essi 'anno/ (nel precedente, le sbarrette delimitano la pronuncia e l'apostrofo precede la sillaba o la vocale su cui cade l'accento nella pronuncia: è una convenzione dei linguisti).
Perché allora la scrittura non si conforma alla pronuncia, nella quale dell'acca diacritica non c'è traccia?
Qui entra in gioco l'etimologia: il verbo "avere" e tutte le voci della sua coniugazione derivano dal verbo latino habere (ind. pres. habeo, habes, habit, habemus, habetis, habent), con l'acca ben visibile come si può leggere chiaramente.
Ciò non di meno, se in latino l'acca in avere ha un senso pieno e comprensibile, non lo ha in Italiano se non in forma di relitto grafico ? tanto è vero che essa è semplicemente scomparsa in tutto il resto della coniugazione verbale (ad es. ci sono: abbiamo, avete, avevo, aveva, ebbi, ebbero, avessero, avremmo, etc.) per restare invece solo nelle quattro voci del presente indicativo.
Volete la riprova di ciò? Cercate sul vocabolario il verbo riavere, che di avere è un composto evidente con il prefisso "ri-"; scoprirete che la coniugazione in questo caso recita:
Io riò
Tu riai
Egli / ella rià
Noi riabbiamo
Voi riavete
Essi riannoe dell'acca diacritica non v'è traccia.
Nel corso della storia evolutiva della nostra lingua nazionale ciclicamente i linguisti e gli esperti di grafematica si sono interrogati sull'opportunità di mantenere il relitto grafico o di trovare una soluzione alternativa per eliminarlo del tutto anche da ho, hai, ha e hanno; la proposta meglio strutturata di siffatto rinnovamento risale al 1911, quando nel II Congresso della Società Ortografica Italiana il grammatico Petrocchi propose di effettuare la seguente sostituzione formale:
Io ho --> Io ò
Tu hai --> Tu ài
Egli ha --> Egli à
Essi hanno --> Essi ànnola quale, per il tramite del segnaccento, differenzia gli omografi e impedisce le confusioni ad esempio tra o congiunzione e ò voce verbale.
Delle avventure della forma accentata parla il celebre linguista Bruno Migliorini nella sua Storia della Lingua Italiana (Sansoni, 1963), citato a più riprese nella fondamentale Grammatica Italiana di Luca Serianni (per i tipi della Garzanti e della UTET).
A questo punto val la pena di porsi la domanda: che ne è stato di quella proposta? L'hanno respinta o l'hanno accolta?
Si potrebbe pensare, dal momento che tutti qui continuiamo a scrivere ho, hai, ha e hanno, che il buon Petrocchi si sia visto accolto da un livoroso lancio di ortaggi al momento della sua prolusione nel 1911, e che la Società Ortografica Italiana abbia rinviato al mittente l'idea bollandola come irricevibile.
Invece non è andata così: la proposta è stata accolta, però poi non ha mai attecchito davvero (non l'hanno recepita in modo uniforme nel corpo docente delle scuole, non l'hanno adottata le case editrici se non con rarissime eccezioni, non se ne sono preoccupati gli intellettuali).
Qual è allora lo status attuale delle forme "io ò" etc.?
Esse sono grafie ortograficamente corrette o comunque non erronee, che però sono considerate poco comuni, di tono basso e popolare, rarissimamente rinvenibili nel corpus scrittorio.
Fa ad esempio eccezione, come si può leggere in questo articolo dell'Accademia della Crusca, il Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi, che ha adottato le grafie alternative accentate «con un risparmio ? scrive l'editore ? di un centinaio di pagine».
Riassumendo: le forme "io ò" per "io ho" etc. si possono usare in ogni contesto (anche la scrittura sorvegliata), ma è raccomandabile farlo con prudenza e se si è certi di rivolgersi a qualcuno che sia in grado di cogliere il sottile "gioco ortografico" ? apprezzandolo o meno, non importa ? e prepararsi a strabuzzamenti d'occhi dell'interlocutore.
Provateci a casa, insomma.
E al professore di scuola che corregge il vostro bambino segnando "egli à" come errore raccontate pure del 1911, di Petrocchi (e di Ferdinando Martini, che insegnava alla Normale di Pisa e combatté per la soluzione accentata) e di un tempo in cui prosperava la Società Ortografica Italiana e si discuteva seriamente di revisioni formali della nostra bellissima lingua nazionale.
Alla prossima.
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Beh dai pero ci ero andato vicino indirettamente...
Non ho vinto niente?
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Interessante Leonov... ma le trovi tutte!
Solo che neanche puntandomi una pistola alla tempia mi convincerai a scrivere in questo modo...
(Beh con la pistola o per un milione di euro forse sì ma non per altro!).Confesso che se dovessi scrivere "riavere" mi rifiuterei di usare la forma corretta e metterei l'h pure lì!
Comunque è una curiosità soddisfatta, ma pensa te quante se ne imparano..
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Che bella lezione!!!!
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Wow!
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Allora quella volta non meritavo l'insufficienza!!!
Lo dicevo io che la professoressa stava sbagliando...
Chissà quanti bei voti mi sono perso!?!
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Devo seguire più spesso questa sezione, si imparano cose interessanti sulla lingua Italiana, per esempio oggi ò imparato un niuovo/vecchio uso del verbo avere :D.
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Bello, non ne avevo mai sentito parlare.
Sicuramente sarebbe più comodo e più utile, anche perchè, a quando si legge in giro, l'h è sempre un optional
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Interessantissimo!!
Adoro la lingua italiana!
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C'era un tempo in cui si scriveva come si parlava, ovvero la grafia tentava di essere più fedele possibile ai suoni.
Ora si parla in un modo e si scrive nelle stesso modo (o quasi) di cent'anni fa.
Forse nell'italiano è poco evidente ma in inglese lo è di più.
Cinquantanni fa la regina pronunciava land /lɛnd/ ora lo pronuncia come /lænd/.
Ho la certezza che una ventina di anni fa pronunciavate delle parole in modo diverso da quello che fate ora. Specialmente per le doppie che i bambini difficilmente pronunciano ma si imparano tardi.
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La lingua è in costante evoluzione, è normale, guarda tutti quei ragazzini che scrivono la K al posto della C o della Q, fra due generazioni dovremo comprare un nuovo vocabolario
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Caro Leonov,niente traveggole,sbronze,sniffate e via sbarellando! E' sufficiente avere qualche annetto di più di quelli che ànno postato diverse ipotesi,dubbi etc. Il fatto è che questo modo di scrivere il presente indicativo del verbo avere è caduto in disuso,perche',a mio parere, la grammatica italiana è piuttosto ostica alla maggioranza,docenti,giornalisti,gente comune ( basta scorrere i giornali, i post dei vari forum...per rendersi conto) per cui nella lodevole intenzione di non creare ulteriore confusione tra l'uso dell'accento e la acca, si è preferito l'uso di quest'ultima,sperando in un uso più italianamente corretto, ma paradossalmente, per la maggioranza,non si usa nè l'una nè l'altra
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Considerazioni condivisibili, Apamul.
Condivisibili e amare, purtroppo: abbiamo una lingua i cui primi alfieri non sono più in grado di curare e portare ai suoi livelli più alti.
Un gran peccato, perché il nostro è un idioma che è stato in grado di dare contributi significativi all'Arte e alla Scienza durante un lungo arco temporale. Eredità meravigliosa che, di questo passo, rischia di andare perduta per sempre.
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Lungi da me incendiare la discussione,ma la tua risposta ha toccato un mio tasto dolente, a dir poco! L'amara considerazione è : se NOI ITALIANI trattiamo la nostra lingua così, come si evidenzia da tutto quello che ci viene propinato dall'informazione,scritta e parlata,non dobbiamo meravigliarci se anche il nostro patrimonio culturale sta' facendo la fine che e' sotto gli occhi di tutti e non mi riferisco ai terremoti soltanto! Mi angoscio al pensiero della cultura occidentale,alla quale abbiamo cosi fortemente contribuito,in una prospettiva prossima ventura,quando altri, con culture diverse,anche se "occidentalizzati" non avendo il nostro retroterra culturale non "capiranno" e trovandosi in posizione dominante potranno disfarsi di tutto ciò che e' lontano dal loro sentire.Speriamo ciò non debba mai avvenire o perlomeno che ci diano il tempo di far capire loro Giotto,Mozart,Manzoni,Shakespeare...
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Ho notato questa interessante discussione. Mi permetto di far notare una cosa: Leonov, scrivendo il post, pare che faccia risalire tal maniera di scrivere la coniugazione del verbo avere al 1911 con il II Congresso della Società Ortografica Italiana. Tale data pare ampiamente errata.
Saluti.
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Salve Ilmoscerino.
Pungolato dalle tue parole, ho riletto il mio post; non mi è sembrato di ritrovarvi l'affermazione che il Petrocchi avesse proposto la forma accentata e priva di h come fosse stata una sua invenzione (invece di una semplice richiesta di accogliere nel novero delle forme accettate dalla grammatica una serie di grafie già presenti di fatto nel corpo della letteratura e della produzione scritta).
Apprezzo tuttavia la precisazione, che mi ha permesso di rivedere il testo e ricordare l'episodio, a mio parere tra i più simpatici nella storia della nostra lingua.
Per approfondimenti ulteriori:
http://lellobrak.blogspot.it/2008/09/la-questione-della-h-etimologica-nel.html (con un tono lievemente meno accomodante di quello offerto dalla mia esposizione)
http://www.homolaicus.com/linguaggi/verbo-avere.htm (con piccola bibliografia)
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A distanza d'un anno, pardon!... Al solito rivendico 'il proprio gusto', che è puro estetismo. Per me l'a/verbo accentata è grafia brutta ché nel pronunciarla non si nota (per quanto l'acca aspirata toscaneggiante non sarebbe tanto da sottovalutare). Perché brutta?... Perché mi riempe/decora lo spazio più una lettera alfabetica – qui l'acca per altro importante – che uno striminzito accento che è, semmai, corredo a lettera. Poi scrivere l'a/accentata per distinguerla da verbo a preposizione è 'visibilmente' tautologico: cioè inutile/ripetitivo/ozioso, quindi brutto. Difatti la lettera alfabetca 'a' – per definizione – è aperta come è l'accento grave che le si vorrebbe appiccicare sopra. (Ricordo che gli accenti grave e acuto, che poniamo soltanto sulle nostre vocali 'e' ed 'o', aprono/chiudono la loro pronuncia; ma la 'a' è appunto esente da questa minuzia di segno – l'accento – se non per le parole tronche. Questo però è altro discorso.)
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La tua argomentazione à senz'altro dei punti di interesse.
A proposito dei diacritici ò personalmente una posizione diversa, ma essa scaturisce e trae vigore dalla mia formazione professionale: nel mio mondo, un punto sovrascritto, un arpione, una barretta, un accento, una tilde o una freccia trasformano enormemente il carattere del simbolo che corredano, ed è bene non confondere quantità omografe potenzialmente diverse.
Parlando di diacritici, tuttavia, ribadisco la mia domanda alla comunità dei programmatori: vorrei una risposta definitiva sul perché qualcuno in passato à stabilito la regola per la quale, sulle tastiere per computer, le "a" intrinsecamente gravi abbiano per l'appunto il segnaccento grave (corretto), mentre le "i" e le "u" non possano averlo acuto, come dovrebbe essere vista la loro natura vocalica, almeno in italiano.
Questa asimmetria mi disturba profondamente, e mi accodo alla falange dei resistenti (Gabrielli, Silvestro ecc.) che pongono attenzione alla direzione del segnaccento anche e soprattutto di quelle vocali che non oscillano in pronuncia aperta/chiusa. Nei documenti che scrivo faccio il possibile per porvi rimedio, e in un vecchio studio di rimappatura della tastiera che avevo predisposto i tasti "ì" e "ù" erano rimpiazzati dai loro corrispondenti corretti "í" e "ú" — con il Mac è agevole sistemare queste e altre caratteristiche della tastiera.
Mi domando però come mai, in un'epoca in cui ormai le macchine potrebbero gestire e risolvere problemi assai piú complessi di questo, ci si ostini a lasciar correre sulle tastiere italiane un cosí sesquipedale errore.
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Sì, è discorso divergente il mio!... Se non altro perché mi sono convinto, a mano a mano che sento tanto vociare mediatico (televisione, cinema, teatro, internet) che la qualità d'una lingua si misura dalla sua scrittura, non dalla sua pronuncia: la scrittura ne è l'anima – sorta di noumeno – e la voce ne è la manifestazione – sorta di fenomeno.
Ora – a modo mio – estrapolo due parole significanti dall'arcipelago linguistico: fonetica e morfologia; a cui gente intelligente e colta (intendo certi 'Accademici') ha amato ed ama appoggiarsi 'parassitariamente', materializzandosi in discipline e cattedre, accademie e consigli, titoli ed encomi (sorvolo sulle monumentali scaffalature dei rispettivi tomi posticci/conseguenziali così poco letterari).
Ma di tutto questo rumore linguistico distillo, sia pure fosse una miseria, la mia vocazione al segno. Che vedo bene e mi resta saldo. E non al modo in cui lo stesso ascolto e mi vola via a seconda di come spiri il vento delle parlate innumerevoli.
Dunque per me l'accento (per seguitare a chiacchierar sull'argomento) grave o acuto che sia, circonflesso all'insù o all'ingiù, con tutta la marea d'altri “diacritici” (parola per me purtroppo maleodorante)... – ovvero tutti quei segnetti fastidiosi, spesso velenosi/quasi sempre inavvertibili, aguzzi come punte d'istrice e ricci di mare – beh per me lui/l'accento, con tutto questo continente minuto di sgorbietti pseudo/grafici che gli tiri appresso, appartiene alla fonetica. Che è l'arte (semplifico) del pronunciar bene ma sempre all'incirca fatalmente le parole d'una lingua/la mia compresa. Mentre l'acca – lettera a dir poco magnificente del nostro vecchio alfabeto ormai maggiorato di k, j, w e x – la faccio appartenere alla morfologia...
La quale invece – quest'ultima – mi rappresenta il reticolo strutturale, sia pure utilizzando in quantità ristretta l'accento stesso, della lingua che scrivo/leggo. Dove devo pur saper distinguere il verbo dalla congiunzione, il tempo dell'anno dai soldi che s'hanno in tasca, e la sillabazione averne misura scandendo il metro dei versi e mantenere il senso logico in frasi e frasi mediante, ecco!...L'ortografia – punto, virgola, due punti, etc. – che pur minima graficamente anch'essa è sostanziale (per favore!).
*I**ntrinsecamente grave **è *espressione carina. Ma perché l'accento fonico, la i e la u, dovrebbero averlo acuto per la loro natura vocalica?
Ciao con sommo rispetto per la diversità assoluta fra due modalità d'intendere la stessa cosa, Euro