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    Brand: farlo usare o no :D

    Da leggere un post di Mauro Lupi molto interessante, per i link che inserisce 😄

    Mentre Google sta cercando di fermare l'uso del googling o to google, Yahoo! invece opta per il contrario...

    Sono con Yahoo! questa volta.

    Giorgio


  • User Attivo

    @Giorgiotave said:

    Mentre Google sta cercando di fermare l'uso del googling o to google, Yahoo! invece opta per il contrario...

    Sono con Yahoo! questa volta.
    E' qui che sbaglio, Giorgio.
    Yahoo è avanti anni luce con le sue strategie di promozione, non solo questa volta 😉
    Vedrai che tra qualche anno anche Google, così come moltissime aziende legate a concetti ormai superati di limitazione asfissiante dell'uso del proprio brand, si adeguerà a questa visione più lungimirante.

    Mi piacerebbe discutere su questo argomento anche nella sezione web marketing, cosa aspetti ad aprire un bel thread parallelo? 😄


  • User

    Il motivo per cui Google non vuole che il proprio nome venga usato come un verbo e' quello di evitare che diventi un nome comune e quindi utilizzabile ovunque e comunque come sinonimo di "search":
    Se questo avvenisse, chiunque potrebbe fare una "Google Engine" e sfruttare commercialmente il nome "Google" (il vero Google non potrebbe far nulla per proteggere il proprio marchio a quel punto).
    So che sembra una cosa ridicola in Italia, ma in America queste sono cose serie.

    Salut


  • Super User

    Non me ne voglia fluxxissima, ma quoto in toto Ray71: l'antonomasia (es. "kleenex" per dire "fazzoletto di carta", o "scotch" per dire "nastro adesivo") è un'arma a doppio taglio per un brand. E i rischi potenziali sono, nel caso del brand Google, di gran lunga superiori ai possibili benefici.

    </my very humble opinion>


  • User Attivo

    Ottimo punto di vista, anche se a mio parere andrebbe studiato nel particolare un metodo per proteggere il brand** sfruttando al contempo questa enorme mole di pubblicità spontanea ma inconsapevole**, ad esempio cercando di far capire alla massa (dunque sfruttando i canali giusti) che ogni volta che si parla di "to Google" ci si riferisce a quel preciso motore di ricerca, ormai così famoso proprio perchè estremamente efficace.
    Accanirsi contro chi (concedetemi questa licenza poetica...) diffonde il verbo secondo me non è la prima soluzione da attuare, non oggi e non su internet, considerando che le voci considerate autorevoli dai navigatori si schierano apertamente in maniera più autonoma rispetto agli altri media.


  • Super User

    @Fluxxissima said:

    a mio parere andrebbe studiato nel particolare un metodo per proteggere il brand** sfruttando al contempo questa enorme mole di pubblicità spontanea ma inconsapevole**, ad esempio cercando di far capire alla massa (dunque sfruttando i canali giusti) che ogni volta che si parla di "to Google" ci si riferisce a quel preciso motore di ricerca, ormai così famoso proprio perchè estremamente efficace.
    Il primo dizionario ad aver inserito "google" come verbo è stato il Jargon File ("The New Hacker's Dictionary"), che dal 2001 circa (ben prima del Merriam-Webster, quindi) ne dà questa definizione:

    google: v.

    [common] To search the Web using the Google search engine, http://www.google.com. Google is highly esteemed among hackers for its significance ranking system, which is so uncannily effective that many hackers consider it to have rendered other search engines effectively irrelevant. The name ‘google’ has additional flavor for hackers because most know that it was copied from a mathematical term for ten to the 100th power, famously first uttered as ‘googol’ by a mathematician's nine-year-old nephew.

    Il rischio è quello che, con l'uso, "to google" diventi sinonimo di "usare un (qualsiasi) motore di ricerca". E chiaramente, non è nell'interesse di Google che il proprio brand diventi un termine generico, come accaduto a Scotch™, Kleenex™, K-Way™, Frisbee™, e tantissimi altri --anche perché il beneficio in termini di popolarità aggiuntiva è tutt'altro che scontato: quando un brand diventa una parola d'uso comune che comincia a vivere di vita semantica propria, per così dire, non esiste alcuna garanzia che chi userà tale parola sarà consapevole del fatto che si tratta anche di un trademark. E la dissociazione fra brand name e azienda non è mai desiderabile, perché equivale a una perdita di controllo, e perciò di potere, da parte di quest'ultima. In quel caso, a venir meno è la funzione stessa del brand come veicolo della corporate identity. Non a caso, la lettera della "trademark police" di Google citata dal Washington Post parla esplicitamente di genericide (vedi definizione di "genericized trademark" su Wikipedia).

    Google è oggi considerato il motore di ricerca per antonomasia (e se volessi essere maligno, direi che il post di Tara Kirchner su Yahoo! Search blog trasuda un po' di invidia ;)). Se chiedi a 100 utenti "dimmi il nome del primo motore di ricerca che ti viene in mente", la stragrande maggioranza risponderà "Google". Allo stesso modo, la maggior parte delle persone (anche non-utenti Internet) sanno che "google" è il nome di uno specifico motore di ricerca. Questa è una buona cosa per il brand Google™, e per l'azienda Google Inc. Il brand è un asset strategico, ed è nell'interesse dell'azienda proteggerlo.


  • Super User

    Aggiungo un paio di considerazioni, riagganciandomi a questa osservazione di Fluxxissima:

    Accanirsi contro chi (concedetemi questa licenza poetica...) diffonde il verbo secondo me non è la prima soluzione da attuare, non oggi e non su internet, considerando che le voci considerate autorevoli dai navigatori si schierano apertamente in maniera più autonoma rispetto agli altri media.
    Proteggere un brand è una questione estremamente delicata: da un lato, un intervento troppo fermo, o troppo insistente, potrebbe essere percepito come censorio dagli utenti, producendo effetti fortemente negativi sulla corporate image di Google; dall'altro lato, non fare nulla potrebbe portare sul lungo periodo ad esiti catastrofici, fino alla perdita del trademark. Occorre perciò trovare il "giusto mezzo": mandare una letterina (appena più educata di una cease and desist, pare) al Washington Post un mese dopo la pubblicazione di un articolo come questo può essere un buon modo per chiarire a giornalisti e lettori che Google™ non ci tiene a fare la fine del Frisbee™.

    Quello di Google è un problema che Yahoo! al momento non ha, e che probabilmente vorrebbe avere. Questo è ciò che, personalmente, deduco dal post di Tara Kirchner su Yahoo! Search Blog.

    Purtroppo per lei, in her own words:

    People don’t often do what you want them to do, and brands are more about what consumers think, than what companies want.
    L'uso di google come verbo è un fenomeno che si è diffuso spontaneamente nella comunità linguistica. Proprio per questo è così difficile da arginare. Per lo stesso motivo, i pur lodevoli tentativi di Yahoo! di incoraggiare usi creativi e ludici del proprio brand secondo me non avranno molto successo --basti leggere i commenti al post della Kirchner, incluso quello (esilarante) di un sarcastico Matt Cutts.


  • User Attivo

    Ottima analisi Everfluxx, anche se la ciliegina sulla torta sarebbe una controproposta di intervento (o di interventi da evitare assolutamente) e i riferimenti alla legislazione statunitense e al codice civile italiano 😉

    Scherzi a parte il fenomeno fino a questo momento mi pare che abbia annoverato tra le sue vittime prevalentemente prodotti del mondo tangibile, tu ricordi qualche esempio di marchio di un servizio diventato generico a furor di popolo?


  • Super User

    @Fuffissima said:

    tu ricordi qualche esempio di marchio di un servizio diventato generico a furor di popolo? Web 2.0? 🙂

    Come probabilmente sai, CMP Media/O'Reilly Media (organizzatori della Web 2.0 Conference) hanno una "pending application for registration of Web 2.0 as a service mark for arranging and conducting live events, namely trade shows, expositions, business conferences and educational conferences in various fields of computers and information technology".

    Gli avvocati di CMP hanno mandato una cease and desist](http://www.tomrafteryit.net/oreilly-trademarks-web-20-and-sets-lawyers-on-itcork/) agli organizzatori (no-profit) di una "Web 2.0 half-day conference".

    Non mi risultano, invece, azioni legali per impedire gli altri numerosi utilizzi del termine "Web 2.0", ormai diventato --di fatto-- di pubblico dominio. In questo caso non si tratta di genericide](http://en.wikipedia.org/wiki/Genericized_trademark) vero e proprio, ma piuttosto di dilution](http://en.wikipedia.org/wiki/Trademark_dilution) (giustamente tollerata da O'Reilly):

    @Wikipedia said:

    A trademark is diluted when the use of similar or identical trademarks in other non-competing markets means that the trademark in and of itself will lose its capacity to signify a single source.