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- Io ò, tu ài, egli à ed essi ànno...
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C'era un tempo in cui si scriveva come si parlava, ovvero la grafia tentava di essere più fedele possibile ai suoni.
Ora si parla in un modo e si scrive nelle stesso modo (o quasi) di cent'anni fa.
Forse nell'italiano è poco evidente ma in inglese lo è di più.
Cinquantanni fa la regina pronunciava land /lɛnd/ ora lo pronuncia come /lænd/.
Ho la certezza che una ventina di anni fa pronunciavate delle parole in modo diverso da quello che fate ora. Specialmente per le doppie che i bambini difficilmente pronunciano ma si imparano tardi.
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La lingua è in costante evoluzione, è normale, guarda tutti quei ragazzini che scrivono la K al posto della C o della Q, fra due generazioni dovremo comprare un nuovo vocabolario
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Caro Leonov,niente traveggole,sbronze,sniffate e via sbarellando! E' sufficiente avere qualche annetto di più di quelli che ànno postato diverse ipotesi,dubbi etc. Il fatto è che questo modo di scrivere il presente indicativo del verbo avere è caduto in disuso,perche',a mio parere, la grammatica italiana è piuttosto ostica alla maggioranza,docenti,giornalisti,gente comune ( basta scorrere i giornali, i post dei vari forum...per rendersi conto) per cui nella lodevole intenzione di non creare ulteriore confusione tra l'uso dell'accento e la acca, si è preferito l'uso di quest'ultima,sperando in un uso più italianamente corretto, ma paradossalmente, per la maggioranza,non si usa nè l'una nè l'altra
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Considerazioni condivisibili, Apamul.
Condivisibili e amare, purtroppo: abbiamo una lingua i cui primi alfieri non sono più in grado di curare e portare ai suoi livelli più alti.
Un gran peccato, perché il nostro è un idioma che è stato in grado di dare contributi significativi all'Arte e alla Scienza durante un lungo arco temporale. Eredità meravigliosa che, di questo passo, rischia di andare perduta per sempre.
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Lungi da me incendiare la discussione,ma la tua risposta ha toccato un mio tasto dolente, a dir poco! L'amara considerazione è : se NOI ITALIANI trattiamo la nostra lingua così, come si evidenzia da tutto quello che ci viene propinato dall'informazione,scritta e parlata,non dobbiamo meravigliarci se anche il nostro patrimonio culturale sta' facendo la fine che e' sotto gli occhi di tutti e non mi riferisco ai terremoti soltanto! Mi angoscio al pensiero della cultura occidentale,alla quale abbiamo cosi fortemente contribuito,in una prospettiva prossima ventura,quando altri, con culture diverse,anche se "occidentalizzati" non avendo il nostro retroterra culturale non "capiranno" e trovandosi in posizione dominante potranno disfarsi di tutto ciò che e' lontano dal loro sentire.Speriamo ciò non debba mai avvenire o perlomeno che ci diano il tempo di far capire loro Giotto,Mozart,Manzoni,Shakespeare...
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Ho notato questa interessante discussione. Mi permetto di far notare una cosa: Leonov, scrivendo il post, pare che faccia risalire tal maniera di scrivere la coniugazione del verbo avere al 1911 con il II Congresso della Società Ortografica Italiana. Tale data pare ampiamente errata.
Saluti.
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Salve Ilmoscerino.
Pungolato dalle tue parole, ho riletto il mio post; non mi è sembrato di ritrovarvi l'affermazione che il Petrocchi avesse proposto la forma accentata e priva di h come fosse stata una sua invenzione (invece di una semplice richiesta di accogliere nel novero delle forme accettate dalla grammatica una serie di grafie già presenti di fatto nel corpo della letteratura e della produzione scritta).
Apprezzo tuttavia la precisazione, che mi ha permesso di rivedere il testo e ricordare l'episodio, a mio parere tra i più simpatici nella storia della nostra lingua.
Per approfondimenti ulteriori:
http://lellobrak.blogspot.it/2008/09/la-questione-della-h-etimologica-nel.html (con un tono lievemente meno accomodante di quello offerto dalla mia esposizione)
http://www.homolaicus.com/linguaggi/verbo-avere.htm (con piccola bibliografia)
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A distanza d'un anno, pardon!... Al solito rivendico 'il proprio gusto', che è puro estetismo. Per me l'a/verbo accentata è grafia brutta ché nel pronunciarla non si nota (per quanto l'acca aspirata toscaneggiante non sarebbe tanto da sottovalutare). Perché brutta?... Perché mi riempe/decora lo spazio più una lettera alfabetica – qui l'acca per altro importante – che uno striminzito accento che è, semmai, corredo a lettera. Poi scrivere l'a/accentata per distinguerla da verbo a preposizione è 'visibilmente' tautologico: cioè inutile/ripetitivo/ozioso, quindi brutto. Difatti la lettera alfabetca 'a' – per definizione – è aperta come è l'accento grave che le si vorrebbe appiccicare sopra. (Ricordo che gli accenti grave e acuto, che poniamo soltanto sulle nostre vocali 'e' ed 'o', aprono/chiudono la loro pronuncia; ma la 'a' è appunto esente da questa minuzia di segno – l'accento – se non per le parole tronche. Questo però è altro discorso.)
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La tua argomentazione à senz'altro dei punti di interesse.
A proposito dei diacritici ò personalmente una posizione diversa, ma essa scaturisce e trae vigore dalla mia formazione professionale: nel mio mondo, un punto sovrascritto, un arpione, una barretta, un accento, una tilde o una freccia trasformano enormemente il carattere del simbolo che corredano, ed è bene non confondere quantità omografe potenzialmente diverse.
Parlando di diacritici, tuttavia, ribadisco la mia domanda alla comunità dei programmatori: vorrei una risposta definitiva sul perché qualcuno in passato à stabilito la regola per la quale, sulle tastiere per computer, le "a" intrinsecamente gravi abbiano per l'appunto il segnaccento grave (corretto), mentre le "i" e le "u" non possano averlo acuto, come dovrebbe essere vista la loro natura vocalica, almeno in italiano.
Questa asimmetria mi disturba profondamente, e mi accodo alla falange dei resistenti (Gabrielli, Silvestro ecc.) che pongono attenzione alla direzione del segnaccento anche e soprattutto di quelle vocali che non oscillano in pronuncia aperta/chiusa. Nei documenti che scrivo faccio il possibile per porvi rimedio, e in un vecchio studio di rimappatura della tastiera che avevo predisposto i tasti "ì" e "ù" erano rimpiazzati dai loro corrispondenti corretti "í" e "ú" — con il Mac è agevole sistemare queste e altre caratteristiche della tastiera.
Mi domando però come mai, in un'epoca in cui ormai le macchine potrebbero gestire e risolvere problemi assai piú complessi di questo, ci si ostini a lasciar correre sulle tastiere italiane un cosí sesquipedale errore.
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Sì, è discorso divergente il mio!... Se non altro perché mi sono convinto, a mano a mano che sento tanto vociare mediatico (televisione, cinema, teatro, internet) che la qualità d'una lingua si misura dalla sua scrittura, non dalla sua pronuncia: la scrittura ne è l'anima – sorta di noumeno – e la voce ne è la manifestazione – sorta di fenomeno.
Ora – a modo mio – estrapolo due parole significanti dall'arcipelago linguistico: fonetica e morfologia; a cui gente intelligente e colta (intendo certi 'Accademici') ha amato ed ama appoggiarsi 'parassitariamente', materializzandosi in discipline e cattedre, accademie e consigli, titoli ed encomi (sorvolo sulle monumentali scaffalature dei rispettivi tomi posticci/conseguenziali così poco letterari).
Ma di tutto questo rumore linguistico distillo, sia pure fosse una miseria, la mia vocazione al segno. Che vedo bene e mi resta saldo. E non al modo in cui lo stesso ascolto e mi vola via a seconda di come spiri il vento delle parlate innumerevoli.
Dunque per me l'accento (per seguitare a chiacchierar sull'argomento) grave o acuto che sia, circonflesso all'insù o all'ingiù, con tutta la marea d'altri “diacritici” (parola per me purtroppo maleodorante)... – ovvero tutti quei segnetti fastidiosi, spesso velenosi/quasi sempre inavvertibili, aguzzi come punte d'istrice e ricci di mare – beh per me lui/l'accento, con tutto questo continente minuto di sgorbietti pseudo/grafici che gli tiri appresso, appartiene alla fonetica. Che è l'arte (semplifico) del pronunciar bene ma sempre all'incirca fatalmente le parole d'una lingua/la mia compresa. Mentre l'acca – lettera a dir poco magnificente del nostro vecchio alfabeto ormai maggiorato di k, j, w e x – la faccio appartenere alla morfologia...
La quale invece – quest'ultima – mi rappresenta il reticolo strutturale, sia pure utilizzando in quantità ristretta l'accento stesso, della lingua che scrivo/leggo. Dove devo pur saper distinguere il verbo dalla congiunzione, il tempo dell'anno dai soldi che s'hanno in tasca, e la sillabazione averne misura scandendo il metro dei versi e mantenere il senso logico in frasi e frasi mediante, ecco!...L'ortografia – punto, virgola, due punti, etc. – che pur minima graficamente anch'essa è sostanziale (per favore!).
*I**ntrinsecamente grave **è *espressione carina. Ma perché l'accento fonico, la i e la u, dovrebbero averlo acuto per la loro natura vocalica?
Ciao con sommo rispetto per la diversità assoluta fra due modalità d'intendere la stessa cosa, Euro
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Salve Euro.
Sulla differenza che sottolinei tra fonetica e morfologia non saprei cosa rispondere; non è il mio campo, ma forse qualche paziente linguista — non necessariamente pomposo accademico, ma ricercatore animato da genuina passione per la conoscenza — potrebbe darci una mano.
Se ci siete, battete il proverbiale colpo.
Su questo, invece,
@euroroscini said:
Intrinsecamente grave è espressione carina. Ma perché l'accento fonico, la i e la u, dovrebbero averlo acuto per la loro natura vocalica?
credo di poter rispondere, grazie alle belle parole di Paolo Matteucci, che di mestiere credo faccia come me il Fisico, ma a differenza di me è capace di discutere di lingua italiana con una competenza enormemente superiore.
Passo quindi la parola a lui, dal suo documento (http://www.achyra.org/matteucci/files/iu.pdf), un gioiellino che invito tutti a leggere nella sua interezza:
Partiamo dalla fone(ma)tica. Com’è noto, il sistema vocalico dell’italiano può essere schematicamente rappresentato dal seguente trapezio:
-- i ————————— u ----
-- e (é) ————— o (ó) ----
-- E (è) ———— O (ò) -----
------------ a ----------------(a livello fonetico, esistono altri due foni, intermedi, rispettivamente, tra e , e tra [o] e [O]: ciò è irrilevante ai fini di questa discussione, ma cfr. Canepàri 1999, §2.2). «Quindi, l’accento acuto ‹ ́› indica vocale (piú) chiusa, quello grave ‹`› vocale (piú) aperta; e l’uso piú raffinato aderisce alla realtà fonetica, preferendo í, ú, é, ó (chiuse), è, ò, à (aperte), sebbene sia piú frequente trovare é, ó, ì, ù, è, ò, à, soprattutto a causa delle limitazioni delle tastiere tradizionali» (Canepàri 1999, pp. 15–6)... E potremmo fermarci qui: il lettore genuinamente obiettivo non necessita davvero d’ulteriori spiegazioni.
La posizione dei sostenitori della grafie ì e ù è ben riassunta dal Serianni, che si rifà a Camilli & Fiorelli (1965), pp. 119 e 183–6: «Quanto alla forma dell’accento grafico, acuto ( ́.) o grave (`.), lo schema piú raccomandabile [...] è il seguente:
à, ì, ù, è, é, ò, ó
Ossia grave –secondo l’accentazione tradizionale degli ossitoni nella tipografia italiana antica– nei tre casi in cui non si può distinguere tra diversi gradi di apertura (à, ì, ù) e acuto e grave a seconda che si vogliano indicare /e/, /o/ oppure /E/, /O/» (Serianni 1989, p. 58) –anche se poche righe dopo il grammatico correttamente aggiunge: «Un altro sistema accentuativo oggi in uso prevede l’accento acuto per tutte le vocali chiuse (í, é, ú, ó) e il grave per tutte le aperte (à, è, ò)»
[...]
Un tale sistema [quello in cui si usi un accento di un tipo solo], perfettamente appropriato per una lingua come lo spagnolo che ha solo cinque fonemi vocalici (e difatti usa un unico accento grafico, quello acuto), risulta inadeguato per l’italiano che ne ha sette, presentando un’opposizione /e/ ∼ /E/ in parole come pésca (attività) e pèsca (frutto), e un’opposizione /o/ ∼ /O/ in altre quali bótte (recipiente) e bòtte («percosse»). Di qui la necessità d’introdurre, in tempi recenti, un secondo tipo d’accento (quello acuto), mutuato dal francese.
In effetti, in ispagnolo si potrebbe anche adoperare, a mo’ d’accento grafico, un semplice punto sottoscritto, non essendoci opposizione fonologica tra, e.g., la di queso e la di tierra, «tassofoni» (i.e. «allofoni combinatòri») del fonema spagnolo /e/ –e questo perché ricorre solo in determinate posizioni, e nelle rimanenti (e in quelle soltanto).
Riconosciuto, quindi, il fatto che un sistema «biaccentuativo» è piú appropriato per l’italiano, si sarebbe dovuto far le cose fino in fondo, anziché a metà, come troppo spesso succede in Italia, magari semplicemente per «venire incontro» al partito dei tradizionalisti,che avrebbe voluto il mantenimento dell’accento grave in tutti i contesti.
Ne è risultata una convenzione ortografica incoerente, ambigua o –perlomeno– innecessariamente complicata (qui, sí, «senza necessità»), che, invece di consistere in un’unica regola (accento grave per le vocali [piú] aperte, acuto per quelle [piú] chiuse), facilmente deducibile anche per lo studioso che non conosca il sistema vocalico dell’italiano, costringe a contorsioni mentali non indifferenti.
Che sia realmente cosí, che cioè una tale convenzione sia anche logicamente (oltreché foneticamente) poco felice, è talmente ovvio che non ci sarebbe nemmeno bisogno di dimostrarlo. E tuttavia, proprio perché non vogliamo lasciare adito a dubbi, procederemo ora –a beneficio del lettore piú pignolo– alla «dimostrazione» di quest’ovvietà.
[Segue dimostrazione logica formale della coerenza del sistema accentuativo proposto, ndr.]
Vediamo ora in quanti modi possiamo raggruppare i fonemi vocalici dell’italiano standard. Le due dimensioni che risultano evidenti dal trapezio vocalico sono l’elevazione (del dorso della lingua o apertura) e l’avanzamento/arretramento (sempre del dorso della lingua). Cosí, bisecando orizzontalmente il trapezio, abbiamo immediatamente che /E a O/sono vocali [piú] basse (o aperte), mentre /i e o u/ sono [piú] alte (o chiuse). Tagliando,invece, il trapezio longitudinalmente, deduciamo che /i e E/ sono vocali anteriori, /O o u/ posteriori, mentre /a/ è centrale. Ovviamente, potremmo ulteriormente raffinare questa suddivisione e dire, e.g., che /E/ è anteriore semi-bassa, ma ciò non è d’alcun’utilità in quest’esercizio, che ricerca la semplicità, non la complessità.
C’è un’altra direzione, non evidente dal trapezio, lungo la quale possiamo suddividere le nostre vocali, che è l’arrotondamento (labiale). Tuttavia, quest’ultimo non aggiunge nulla di significativo, ché in italiano sono arrotondate solo e soltanto le vocali posteriori /O o u/, e cioè (in italiano standard) «posteriorità ⇔ arrotondamento».
[Altri dettagli formali della prova logica.]
Esplicitamente: dal sistema {í é è à ó ò ú} dedurrò, logicamente, che i fonemi rappresentati dai grafemi í é ó ú condividono una caratteristica fonetica comune (che sappiamo essere la chiusura), mentre i rimanenti (rappresentati da è à ò) ne condividono una diversa(l’apertura, appunto). Ragionevolmente dedurrò anche che è é e ò ó, pur appartenendo a due diverse categorie, rappresentano due fon(em)i «vicini»... Tutte conclusioni che sappiamo essere vere. Non solo: se inoltre sappiamo che i fonemi in questione sono proprio /i eE a O o u/ (con tutte le loro caratteristiche fonetiche), è facile rendersi conto che possiamo univocamente identificare i grafemi dati con questi fonemi nel modo «corretto».
[...]
Per completezza, menzioniamo qui brevemente altri due sistemi accentuativi per l’italiano che sono ormai desueti o il cui impiego è oggi in forte regresso. Oltre al sistema «standard», a quello che qui si predilige e che potremmo chiamare«fonetico» e al sistema «tradizionale», che prevede l’accento grave in ogni contesto, ne esiste un altro piú antico (cinquecentesco), che potremmo definire «alessandrino», che è alla base di quello tradizionale e, sull’esempio del greco classico, prevedeva l’accento acuto all’interno della parola e quello grave alla fine. [...] Questo è il sistema impiegato, ad esempio, nella prima edizione del Vocabolariodegli Accademici della Crusca (1612). Esiste infine un quinto sistema accentuativo, che potremmo definire –a seconda dei punti di vista– «glottologico» o «assurdo», per il quale si ha í è é á ò ó ú. Esso trovale sua ragion d’essere (se di «ragione» si può parlare) nella glottologia, dove, secondo una vecchia convenzione, l’accento acuto indica la vocale accentata, ma si noti allora l’incoerenza rappresentata da è ò, nonché la solita scelta foneticamente poco felice d’accomunare/i a u/.
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Bravo Leonov!... so che se t'impunti in una argomentazione, sei almeno/almeno documentato: ah che persona seria!! Sfugge tuttavia al tuo 'Matteucci' che esisto anche io... Anzi fammi il piacere se puoi: comunicagli che sto lavorando intensamente (sulla base delle sei cuspidi dell'OTTAEDRO ? la figura che riassume la mia filosofia) su un sesto sistema accentuativo dell'unica/autentica/definitiva lingua italiana ad saecula. (E già che sto a sbracarmi in comunicazioni di livello...) t'informo altresì che sto per proporre a tutta la 'comunità dei programmatori informatici' una nuova serie di emoticon altamente simbolici, sorprendenti (lo saranno), perfettamente adeguati a questa mia accentatura rivoluzionaria/da sballo.
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Non mancherò di passare la voce.
La comunità tutta si farà trovare pronta a ricevere, vagliare, e — perché no? — accogliere con entusiasmo la tua ottaedrica proposta.
Per parte mia ho sempre amato le forme appena esotizzanti del dodecaedro (mi pare fosse il simbolo dell'etere, per Aristotele), ma finché si resta nei solidi platonici, e non si scivola nelle proteiformi figure disponibili nel catalogo di Schläfli, sono sempre felice.
A bientôt.