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    La Valigetta

    Mio padre (1908 - 1995) durante la guerra rimase a letto (a Napoli) con una troboflebite, mentre la moglie con i suoi tre figlioletti furono sfollati a Cassino, il posto più bombardato in assoluto della seconda guerra mondiale.
    "LA VALIGETTA" (poemetto) è una metafora, un luogo ove conservare i cuori dei propri figli, per tutto il tempo della separazione (che non avrebbero potuto prevedere - sarebbe stato di ben dieci mesi - se non dopo essersi reincontrati).
    Ho trascritto solo la traduzione in italiano perché l'originale è difficilissimo da trascrivere; la lingua napoletana ha delle sue regole precise e mio padre la scrisse in napoletano parlato: dovrei fare un grosso sforzo di trascrizione: in questi anni non sono stato bene con l'umore e non sono stato in grado di occuparmi di questa cosa.
    La traduzione in italiano, nel frattempo, l'avevo già trascritta al computer.
    Di seguito riporto un articolo di giornale sul poemetto "LA VALIGETTA" che però parla anche di un altro poemetto intitolato "UNA PREGHIERA ALL'ANGELO". In questo caso riuscii a trascrivere sia il testo originale che la traduzione in italiano.
    Solo dopo queste introduzioni seguirà "LA VALIGETTA".
    Per forza di cose, sia la spigazione del periodo di guerra che l'articolo di giornale, verranno riportati come anterpima sia de "LA VALIGETTA" che di UNA PREGHIERA ALL'ANGELO".
    Stefano

    «Si nun cant’ ‘io moro…»
    Un poeta spontaneo:

    dal settimanale Rinaldo in Campo (Napoli, domenica 10 novembre 1946)

    « Poeta nascitur ».
    Poeta si nasce: ci ripensavo giorni or sono, quando in una gradita sosta a Posillipo, il mio fraterno amico Emilio Ferrarese, mi faceva fare la conoscenza di questo poeta, simpaticissima figura di napoletano puro sangue, di quei napoletani che Libero Bovio scolpì in quel suo verso immortale:
    « …si nun cant’io moro!… ».
    Le parole dell’autore sono tutte un canto, in ogni sua sincera espressione è l’immagine viva e palpitante della sua anima candida, che vibra di amore e sentimento di fronte a tutte le sensazioni dello spirito, siano esse belle o brutte. Canta egli, insomma, come presto vi dimostrerò, fermamente convinto nella sua bonaria, invidiabile filosofia, che chi canta fuga la infelicità, mentre chi piange la accresce.
    I suoi canti sono nati nel tormento, in quell’indicibile tormento di quella dura, tragica guerra, abbattutasi su tutta la umanità come il più inesorabile dei cataclismi, ed il cui pauroso ricordo non sarà mai scacciato dalla mente di chi ad essa riuscì a sopravvivere.
    L’autore, tempra d’industriale nostro, tutta genialità e spirito d’iniziativa, con un lavoro insonne e fattivo, aveva saputo assicurare a sé ed alla sua nascente famigliuola, tutto quanto occorre per non maledire la vita. Scoppia l’immane conflitto che tutto ferocemente sconvolge. L’autore vede crollare la sua industria sotto i bombardamenti, la sua famiglia è costretta a rifugiarsi lontano, ed egli solo, mentre si dibatte per salvare il salvabile, è colpito, per colmo di sventura, da un male che lo inchioda nel letto.
    È in questa atmosfera, che egli, fervido cristiano, sa nel canto trovare la fonte profonda dell’inesprimibile, la pacata rassegnazione verso l’ineluttabile, e mentre gli altri imprecano e si disperano, egli si conforta fissando in una poesia spontanea, sincera le immagini che agitano il suo cuore. Nascono così tra le altre, due composizioni — « ‘Na preghiera a n’ ‘Angiulo » e « ‘A valigetta » — che possono senz’altro catalogarsi come due schietti poemetti di guerra, perché è in essi la visione terrificante del flagello che nulla risparmiava.


    Nel primo poemetto l’autore comincia con l’esaltare la tenerezza della mamma sua, che vecchia e malandata, noncurante di tutti i pericoli dell’offesa aerea, accorre al suo capezzale:
    O bben’ ‘e mamma è ‘o cchiù forte ammore,
    nisciuno bene è comm’’a chillu là,
    parla cu l’Angelo e c’’o Salvatore,
    e ‘a dint’’o lietto ‘o figlio fà aizà.
    Grave è la sua malattia. Nessuna medicina appare atta a sanarla.
    Ll’aria e ‘o sole d’oro, non serveva,
    e ‘a morta for’ ‘a porta c’aspettava…
    La buona mamma fervidamente prega, e le sue implorazioni commuovono
    N’Angiulillo d’oro, c’ ‘a vucell’ ‘argiento
    che le va in sogno e le annunzia che il figlio suo è salvo. Il prodigio si compie. Il giovane non dubita più della sua guarigione, ripensa ai suoi cari lontani, che per ironia della sorte sono capitati proprio nell’inferno di Cassino. Si ricorda del padre della sua sposa, immobilizzato in un letto, e quindi invoca dalla mamma sua che si prostri di nuovo ai piedi dell’Angelo e lo preghi così:
    Angelo, salva ‘a mamma e ‘e figlie pure,
    salva ‘a stu pate, stanco ‘e malatia,
    ‘a pace manna dint’ ‘a casa mia
    e salva ‘o nonno ‘e chesti criature…
    Egli è ormai certo che anche la nuova grazia non gli sarà negata, e in un impeto di ardente passione grida alla sua diletta sposa:
    Si tuorne tu che grazia e che gran festa,
    che belli vute ‘e Sante aggiu prummise,
    se io te veco mo da sta fenesta,
    lieve l’inferno e miett’ ‘o Paraviso!


    « ‘A valigetta » si riporta a quel triste Natale del 1943, quando Napoli, bombardata, avvilita, era in preda al caos generale per le truppe che vi arrivavano da ogni parte, per raggiungere il fronte a pochi chilometri di distanza. Sempre solo e prostrato dal male, che non gli dà tregua, egli trova unico conforto nel fissare sulla carta le immagini che si affollane nella sua mente, e prima fra tutte, quella dell’affrettata partenza di sua moglie e delle sue tre creature.
    Da chillu iuorne quanno tu partiste,
    ‘o tiempo se fa luongo quante maie,
    tengo ‘na cerevella sempe triste
    chien’ ‘e penziere e carrech’ ‘e guaie
    Intravede la mestizia della compagna lontana, e cerca d’infonderle coraggio:

    Che vonne ddì chist’uocchie sempe ‘nfuse,
    pienz’ ‘o ritorno, e nun penzà ll’addio,
    appriesso a tte sta ‘a valigetta nchiusa,
    che ten’ ‘o core mio e ‘o core tuio…
    È precisamente a questa quartina che si riannoda l’ispirazione del poemetto. Egli ha dinnanzi a sé la donna amata e le sue tre creaturine costretto a fuggire da Napoli, ove non si resiste più per i continui, paurosi bombardamenti. Rivede la piccola valigia affidata a sua moglie con mille raccomandazioni, specie per le creature. Ricorda che i suoi non volevano saperne di staccarsi da lui, e con accorati accenti dimostra alla sua cara che di quella precauzione non si poteva fare a meno.
    Nun se raggiona cchiù cu’ ‘e cerevelle,
    ‘e cchiese, ‘o Salvatore, si è nu Santo,
    nun rispetta cchiù niente stu flagello,
    nemmeno ‘e muorte dint’ ‘o campusanto!
    Il quadro della tragica situazione della città straziata è di una rara efficacia, ed intanto egli continua a rassicurare la moglie su di un domani migliore e sulle belle giornate, che certo ritorneranno, e nelle quali potranno ricostruire le gioie dei loro primi incontri, quando:
    Io dint’ ‘a ll’uocchie tuoie vedevo ‘o sole,
    e ‘o desiderio ‘e vase me veneva.
    Lo assale di nuovo il dubbio che non riuscirà a superare il male che lo debella, e fa quasi il suo testamento spirituale, rivolgendo il suo primo pensiero alle sue creature:
    A copp’ ‘o Paravise songo scise,
    tre angiulille cu’ ‘e faccelle argiento,
    so tre pe nove ventisette mise,
    pare ch’ è stata na fatica ‘e niente…
    Incita la moglie a tenere celata per quanto le sarà possibile ai suoi bimbi la verità, se non dovessero più rivederlo, e la esorta a fare del suo meglio perché ad essi non manchi il più lieto avvenire. La conforta ancora e la invita a rassegnarsi lasciandole comprendere che
    ‘A guerra ‘e meglie frutte sta cuglienno,
    pure ‘a Madonna chiagne e se ne more…


    Nobili e commosse espressioni, come si vede, che nella loro semplicità rivelano quasi l’anima di un bimbo che diverta a fare le bolle con le lagrime. Nessuna pretesa letteraria, quindi, nè artifizio di sorta, ma solo un colorito, appassionato discorso al sentimento ed all’immaginazione; parole dense di passione e di tenerezza che indubbiamente prendono, e suscitano in ogni animo sensibile echi, risonanze e associazioni di idee, che rispecchiano in tutta la loro rude evidenza episodi vissuti. Poesia popolare, dunque, che sgorga spontanea dal cuore dell’autore, poesia sentita, tutta fervida di fantasia, ma lontana da ogni forma riflessa o meditata. Ed è questo, a modesto parer mio, il pregio grandissimo dei due poemetti, che riaffermano, come effettivamente in questo divino paese del sole — e l’indimenticabile don Liberato che canta — :

    tutt’ ‘e pparole
    so’ doce o so’ amare,
    so’ ssempe parole d’ammore!

    LUIGI DE LILLO

    LA VALIGETTA
    (traduzione del poema napoletano " ‘A valigetta")

    Se torni tu che grazia, e che gran festa,
    che bei voti ai santi ho promesso.
    Se io ti vedo ora da questa finestra
    mi tolgo dall’inferno e vado in Paradiso.

    La ninna nanna mio caro bambino,
    quest’anno il capitone è un morso amaro.
    Chi spara i tracchi, chi beve il vino,
    io piango, insieme alla penna e al calamaio.

    Mentre ti scrivo tremano queste mani.
    Se tu stai in croce ed io in un letto
    con questa febbre che dura una giornata intera,
    meglio morire che non trovare pace.

    Leggiti la storia della tua partenza,
    è un poco del mio Purgatorio.
    In questa confessione ci trovi tutto,
    imparala come l’Ave Maria.

    Giornata piena di sole, e tu tremavi,
    sembravamo la Madonna e l’Ecce Homo.
    Agosto, sissignore, si chiamava
    questo bel mese poco galantuomo.

    Con la sua astuzia tutto si prese,
    son quattro mesi, e ancora va fuggendo.
    È diventato il cane che ti tien lontano abbaiando,
    quando sarà il momento gli taglio la coda.

    Che vogliono dire questi occhi sempre bagnati,
    pensa al ritorno e non pensar l’addio.
    Con te sta la valigetta chiusa
    che contiene il cuore tuo e il cuore mio.

    Prima di partire, se vuoi esser sicura,
    metti tutto avvolto: la valigetta e
    i cuori delle creature
    dentro una fascia di seta ricamata.

    Prendi la chiave e mettila nel petto,
    non ti preoccupare ché non fai brutta figura:
    A questi cuori avvolti stretti stretti,
    tu gli davi latte nel miglior fiore della giovinezza.

    Chi lascerebbe casa lasciando un marito?
    Chi prenderebbe tre figli per portarli fuori Napoli?
    “Lontano da te sarò certamente
    malinconica, io parto e me ne muoio”.

    Vedi questa guerra quanto è infame?
    Vedi questo nero più nero del nero?
    Sembra che capisci ma non cedi,
    sto nell’inferno, non lo credi?

    Pazienza e paura sopra paura,
    per giorni e notti intere.
    Quest’azzurro cielo è diventato scuro,
    anche il sole adesso si è vestito a lutto.

    Non si ragiona più con il cervello,
    che sia la Chiesa, il Salvatore o un santo,
    non si rispetta niente in questo flagello,
    nemmeno i morti del camposanto.

    Malati, vecchi, donne e bambini,
    gente nobile e gente povera,
    ognuno scappa, ognuno taglia la corda.
    E noi? Tra l’incudine e il martello.

    Se camminiamo sul filo di seta…
    ecco, tienimi, ché adesso si sfascia!
    Se attraversiamo il pozzo fatto di creta…
    ecco, la sirena! Ora andiamo giù!

    Sembra che il tempo stringe, e io non mi sbrigo…
    Ti raccomando, toglimi il pensiero.
    Lontano da te, lo so, io mi trovo a disagio
    ma ti scriverò come un romanziere.

    Il tuo onomastico prima di tutto:
    all’antivigilia, cosa ti arrivò?
    Una lettera piena di confetti da sposa
    che tu leggendo assaporasti assai.

    Non piangere, anche se hai ragione,
    sono sempre lo stesso del mercato antico.
    Mi resta una forte passione
    di quella piccola loggia in capo al vico.

    Ridevi sempre, sempre tu ridevi,
    questi tuoi occhi, due ciliegie corvine bagnate.
    In mezzo a questa festa tu non lo vedevi,
    (c’era) un signorotto tra le fronde di rosa.

    Chi era? Un garofano schiavone,
    rosso di colore, come il fuoco dell’amore,
    in una testa fuori ad un balcone
    sospirava dalla bocca quasi ad ogni ora.

    Che piacere ne ebbero le rose
    che tu quel garofano tagliasti.
    Le più gelose e quelle invidiose,
    furono tutte contente quando me lo gettasti.

    Nei tuoi occhi vedevo il sole,
    che desiderio di baci mi veniva.
    Quando dormivi sotto queste viole
    ti svegliavi se tuo padre saliva su.

    Dal Paradiso sono scesi
    tre angioletti con le faccine d’argento.
    Son tre per nove, ventisette mesi:
    sembra sia stata una fatica da poco…

    Una madre per questi figli che può fare?
    Si taglia le vene e annaffia una pianta
    col suo sangue, e non la fa seccare.
    Perciò li affido a te povera santa.

    Appena arrivi nel paese
    piano piano apri la valigetta.
    Sciogli la fascia dei tre cuori racchiusi,
    e, ad una alla volta, ascolta la ricetta.

    Assuntina, l’errore non si ammette,
    sistema i cuori come ti dico io.
    È cosa semplice, non è un gran progetto,
    segui nell’ordine e capirai.

    Metti il primo, quello che porta avanti
    il nome e l’onore della casata.
    Sudore e stenti di fatiche ardenti
    che ha fatto un uomo e che si chiama “il padre”.

    Affianco al primo mettici il secondo,
    è una bambola, questa madonnina mia.
    È una faccina di cera questa Gioconda,
    solo per lei muoio di gelosia.

    Guardala fissa nelle due stelle,
    sono dipinte da una vernice rara.
    Se chiama il padre, dalle le caramelle,
    e dille una bugia cara cara.

    Cerca di non farle avere paura,
    con gli occhi dolci lei tutto ti dice.
    Se tu ci leggi che mi chiama ancora,
    dopo la bugia mettici la cornice.

    Se non ti crede dille la verità:
    il cuore di tuo padre sta insieme al tuo,
    sta ben chiuso, e non ci può scappare.
    E la chiave? Sta sempre con noi.

    Poi viene il terzo, il cuore di Marisa,
    è un bocciuolo piccolo e bagnato,
    che quando si schiude diventa una rosa.
    Questa sfacciatella t’incarta.

    Adagiala nella bambagia,
    come facevi con il Bambino Gesù,
    come un Re Magio nella grotta.
    Il cuore suo è tutta la mia vita.

    Coprila col manto delle preghiere,
    che ti mandò la nonna da fuori.
    Non c’è bisogno che te la guardi il corazziere,
    si scampa tutto con questo calore.

    Se poi dovesse succeder qualcosa,
    la valigetta aprila solo tu.
    Questo cuore che a chiave tu hai chiuso
    non lo chiamare ché non risponde più.

    La guerra i migliori frutti sta cogliendo,
    anche la Madonna piange e ne muore.
    Oh mamma! Mi sta tremando la mano e la penna,
    Dio, povero me, povero cuore.

    Posillipo (Napoli)
    Vigilia di Natale 1943