• Super User

    Lingua Italiana; quali sono le sue origini?

    Così un po' a grandi linee, siamo tutti sommariamente in grado di indicare in Dante Alighieri il padre ed ispiratore della Lingua Italiana, e nel dialetto toscano la sua area di provenienza.

    Ma fino a che punto è realmente così?

    E quanto eventualmente ha influito il Latino parlato dai romani nell'idioma medievale toscano?

    E quante tracce di greco secondo voi vi sono (o vi erano) nel dialetto toscano, così evidenti tutt'oggi nei dialetti di diverse aree interne della Calabria e delle Puglie? :smile5:


  • Super User

    Sembra che questo argomento trasmetta sconcerto nel lettore che arriva, legge e fugge senza commentare, evidentemente privo di argomenti o di stimoli ad affrontarli.

    Vediamo allora di aumentare gli aspetti valutativi della Lingia Italiana, arrivando allo storico e figurativo.

    Sembra che il nome "Italia" sia stato usato per la prima volta dagli autori latini e greci, specificatamente da Erodoto che con quel nome indicava la parte meridionale antica della penisola, il Bruttium che era abitato dagli *Itali, *sudditi di Italo, re degli Enotri, corrispondente all'attuale Calabria centrale.

    image

    Secondo quanto viene tramandato da Alicarnasso e Dionigi, Virgilio e Tucidide, il nome* Itali* fu esteso ad indicare gli abitanti della Magna Grecia, che venivano definiti Italiótai.
    Si evince dunque che le origini del termine Italia siano riferite all'Istmo di Catanzaro, il punto più stretto d'Italia collocato tra i due golfi citati da Antioco di Siracusa e subito a settentrione di Monasterace, terra del nostro Giorgio Tave. :vai:


  • User Attivo

    *Lo so che lo sai/lo so che lo conosci; ma ti rammento che questo Cantico è di almeno cent?anni più vecchio della Commedia? (Anche gli Umbri hanno fatto del loro meglio!) *
    Altissimu, onnipotente bon Signore,
    Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.
    Ad Te solo, Altissimo, se kònfano,
    et nullu homo ène dignu te mentovare.

    Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,
    spetialmente messor lo frate Sole,
    lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
    Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
    de Te, Altissimo, porta significatione.

    Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle:
    in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.

    Laudato si', mi' Signore, per frate Vento
    et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
    per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

    Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua.
    la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

    Laudato si', mi Signore, per frate Focu,
    per lo quale ennallumini la nocte:
    ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte?

    *E poi c?hai Jacopone quando ancora Dante non era nella mente del Signore (in una delle tante ?laude?) di cui, da questa, di tre cinquantine di settenari te ne tiro fuori i seguenti: *
    «Donna de Paradiso,
    lo tuo figliolo è preso
    Iesù Cristo beato.
    Accurre, donna e vide
    che la gente l'allide;
    credo che lo s'occide,
    tanto l'ò flagellato»

    «O Pilato, non fare
    el figlio meo tormentare, 25
    ch'eo te pòzzo mustrare
    como a ttorto è accusato».

    «Crucifige, crucifige!
    Omo che se fa rege,
    secondo la nostra lege
    contradice al senato».

    «O figlio, figlio, figlio,
    figlio, amoroso giglio!
    Figlio, chi dà consiglio
    al cor me' angustïato?
    Figlio occhi iocundi,
    figlio, co' non respundi?
    Figlio, perché t'ascundi
    al petto o' si lattato?
    Figlio bianco e vermiglio,
    figlio senza simiglio,
    figlio e a ccui m'apiglio?
    Figlio, pur m'ài lassato!
    Figlio bianco e biondo,
    figlio volto iocondo,
    figlio, perché t'à el mondo,
    figlio, cusì sprezzato?
    Figlio dolc'e piacente,
    figlio de la dolente,
    figlio àte la gente
    mala mente trattato».

    Né ti dico di quel pazzoide anacoreta del Fasani che, per una cinquantina d?anni sparse per tutta l?Umbria le sue invettive infervorate e trucide a botte di frustate sulle spalle che s?assegnava da autentico ?edonista? come non sono io.

    Da un ?Gerusalemme celeste? in 336 dodecasillabi ti ci traggo un segmento di 5 quartine monorime d?un altro francescano, però di Verona questa volta (ci senti la parlata veneta) che visse una generazione prima di Dante che ? lui/il Grande ? fa finta d?ignorare:
    E poi canta una prosa k?è de tanta natura,
    dananço Iesù Cristo e la Soa mare pura,
    che nuia consa è êl mundo, né om né creatura,
    ke ve?l poës cuitar en alguna mesura:

    ké ?l canto è tanto bello, sença nexun mentir,
    ke cor no?l pò pensar né lengua proferir,
    e solamentre quigi lo pò cantar e dir
    ke voso en questa vita virgini a Deo servir.

    Dondo quella dona tant è çentil e granda
    ke tuti li encorona d?una nobel girlanda,
    la quala è plu aolente ke n?è moscà né ambra,
    né çiio né altra flor né rosa de campagna.

    E per honor ancora de l?alta soa persona
    quella nobel pulcella ke en cel porta corona
    destrer e palafreni tanto richi ge dona,
    ke tal ne sia en terra per nexun dir se sona:

    ké li destreri è russi, blanci è li palafrini
    e corro plui ke cervi né venti ultramarini,
    e li strevi e le selle, li arçoni et an? li frini
    è d?or e de smeraldo, splendenti, clari e fini.

    *E da Giacomo/il Notaro (vispo narcisista come me) c?hai il contributo principe della Sicilia: *
    Con vostro onore facciovi uno ?nvito,
    er Giascomo valente, a cui [mi ?n]chino:
    lo vostro amor voria fermo e compito,
    per vostro amore ben amo Lentino.

    Lo vostro detto, poi ch?io l?àggio adito,
    più mi rischiara che l?aire sereno.
    Maggio infra li [altri] mesi è ?l più alorito,
    per dolzi fior che spande egli è ?l più **fino. **

    (Avrei messo ?ameno? al posto di ?fino?)

    Or dunque a maggio asimigliato siete,
    che spandete [gai] detti ed amorosi
    più di nullo altro amador c?omo saccia.

    Ed io v* amo più che non credete:
    se ?nver? di voi trovai detti noiosi,
    riposomende a l?ora c?a voi piaccia.

    E Rinaldo d'Aquino, Odo delle Colonne?

    eu.ro

    P.S. Non so se t?interessa; ma non sono un linguista e faccio del mio meglio.


  • Super User

    Grazie Euro per il notevole contributo. :ciauz:


  • Consiglio Direttivo

    Mi permetto di aggiungere una postilla all'argomento qui affrontato.

    Si afferma piuttosto diffusamente che la lingua italiana sia derivata dal mondo latino: ipotesi più che valida, ma meritevole di una piccola correzione di rotta.

    Quando pensiamo al Latino ed alla sua gloriosa tradizione, i primi nomi che ci vengono in mente sono quelli dei "grandissimi" come Virgilio, Cicerone, Tacito, Lucano, Seneca, Catullo, Petronio.

    Gli allievi del liceo classico o gli studenti universitari di Lettere potrebbero snocciolare qualche altro nome più "da specialisti", come Plinio il Vecchio, Vitruvio, Persio, Gioovenale e via discorrendo, fino ad arrivare agli ultimi autori studiati quali Ammiano Marcellino, Isidoro o il geniale anonimo del Testamentum Porcelli, delizioso divertimento letterario in cui un maiale parlante - chiamato opportunamente Cotenna - redige un testamento impeccabile sul piano formale in cui lascia a vari personaggi le parti di sé che andranno macellate, in un delirio di surreale umorismo notarile.

    Se però ci si lega troppo all'idea che l'idioma Volgare Italiano sia derivato da quel Latino, si finisce col commettere una pesante inesattezza.

    L'Italiano ha sì le sue radici saldamente infitte nel Latino, però nel Latino tardo, quello in cui era diventato inestirpabile l'influsso dei barbari, delle ibridazioni, delle contaminazioni.

    Per capire il livello delle differenze, vi propongo una breve ed incompleta rassegna di esempi a mio parere illuminanti.

    Un contemporaneo di Cicerone usava dire *equus *per indicare il *cavallo *(da cui i nostri aggettivi equino, *equestre *etc.); però in epoca tarda si affermò prepotentemente il sinonimo caballus, che con pochi fenomeni fonetici (tra cui il tipico scambio dei suoni "b" e "v") divenne il nostro *cavallo *e parole affini.

    Il colore *bianco *e l'aggettivo corrispondente venivano designati con parole quali *albus *e *caeruleus *(oggi sopravvissuti in forme rare come *ceruleo *o albino), ma noi abbiamo ereditato per lo più i termini barbarici *blancus *e blavus.

    A tavola, un gentiluomo romano vecchio stampo avrebbe parlato di *edere *per intendere l'atto del mangiare; non si sarebbe certo abbassato ad usare manducare, tipico verbo da contadinotti rozzi. Noi, però, oggi impieghiamo mangiare, mentre l'unica testimonianza rimasta del più nobile *edere *è l'aggettivo edule, che vuol dire commestibile (a sua volta dal frequentativo comedere).

    *Fratellus *e *sorella *erano dei diminutivi poco usati dei più corretti *frater *e soror.

    Analoghe "degenerazioni" - almeno secondo l'opinione dei latini classici - si ebbero nei verbi: per analogia con la terminazione in -ere di certe voci, si iniziò a dire *essere *in luogo di *esse *(sum, es, fui, *esse *- essere), come se fosse stato *dicere *o facere; stessa sorte per l'infinito velle, diventato *vellere *(volere).

    Il verbo volere subì ancor più radicali trasformazioni: al tradizionale volo, vis, *vult *si sostituì negli anni volo, volis, volit, che noi abbiamo reso poi con voglio, vuoi, vuole.

    Il Latino esprimeva tutti i tempi composti usando particolari desinenze che si accodavano al tema del verbo; solo in epoca tarda, per semplificare, si iniziò ad usare in modo ubiquo l'ausiliare *habere *(poi scritto abere/*avere *senza "h"), passando da cose come *viderat *a cose più familiari quali *habuit visum *o *avuit visitum *(ebbi visto).

    Di pari passo con la drastica semplificazione della coniugazione verbale andò la flessione dei nomi: come è noto, in latino della rosa si dice rosae, *dei lupi *si dice luporum. Con il Latino tardo arrivarono le preposizioni, che soppiantarono le desinenze (e si passò a de rosam, de canem, ab ovum).

    Nello stesso periodo, causa affermazione definitiva del Cristianesimo quale religione di stato, altre due parole mutarono per sempre: il vecchio *Saturni Dies *cedette il posto all'ebraico Sabbatum, mentre il *Solis Dies *fu ribattezzato Dies Dominica: noi abbiamo così ricevuto in dono il *sabato *e la domenica, che non tutti però hanno adottato la scelta: gli Inglesi, lo si nota subito, hanno ancora un *Saturday *(Saturn Day) ed un *Sunday *(Sun Day, giorno del Sole).

    Tutto questo lungo sproloquio può allora essere riassunto così: il Latino che gli uomini e le donne parlavano ai tempi di Dante non era più da secoli quel Latino cui siamo abituati a pensare, ma un idioma già così diverso e modificato che un contemporaneo di Cicerone l'avrebbe trovato inascoltabile.

    Il passaggio tra l'ultima fase della lingua dei Cesari e la prima della lingua italiana fu pertanto molto più morbido, continuo, uniforme di quanto si tenda a pensare (erano in pochissimi a coltivare le radici latine nella loro purezza: i più si accontentavano della versione colloquiale e degradata descritta negli esempi precedenti).

    Il processo somigliò molto più ad una lenta discesa su un pendio dolce che ad un precipitare brusco tra due livelli ben distinti a quote diverse.


  • User Attivo

    L'incompetente che sono!

    Bravo, Leonov!... (Come al solito.) Ma rimane il problema che pone Andrez esplicitamente: quanto ha influito il latino classico (cioè la lingua parlata da quella serie di nomi illustri da libro scolastico cui fai riferimento) sull? ?idioma medioevale toscano?? La stessa influenza che esercitò sugli altri dialetti italiani? Già Andrez ? mi sembra ? lascia intendere bene che ci fu quel ?passaggio morbido/continuo/uniforme? tra latino e italiano che dici. E che sappiamo un po? tutti più o meno. Sarebbe allora interessante ? qui ? raccapezzare autori toscani e di altre regioni che sono vissuti e si sono espressi intorno all?anno Mille e ancor prima (non nel XII o XIII secolo) per confrontarli contestualmente con quanto scriveva e come sapeva scriverlo ? che so ? Brunetto Latini, no?
    Io penso che Andrez, comunque, ponga implicitamente un altro problema, più psicologico/più sentimentale: quello di farla finita una volta per tutte ? dati alla mano ? con questa ripetutissima (quasi un luogo comune) supremazia presunta di toscano di ieri sull?italiano di oggi. Io, del tutto intuitivamente, se questo è davvero il problema centrale che sta a cuore al nostro admin, proporrei una soluzione capricciosa?
    Un popolo dominante impone ? di regola ? sempre la sua lingua; e questa si afferma storicamente soltanto se riesce a coagulare in una classe sociale medio/alta di maestri, di costruttori, di mercanti, di artisti, di notai: da noi era la Toscana del tardo Medioevo; non era l?Umbria, non era la Padana, non era la Sicilia, non era Roma o altro d?Italia. Qualcosa di simile fece/tentò di fare Federico II giusto nei suoi palazzi; ma non resse col tempo, e si riassorbì in feudo, paese, campagna, ignoranza diffusa e piccineria d?idee. Ora tuttavia, quella classe sociale di cui sopra tende ancora/sempre ? di regola ? a farsi leggenda e mito di se stessa ? è fatale. Per cui rassegnati, Andrez: la Toscana ci domina/ci dominerà sempre, aristocraticamente, nelle nostre ? intrugliati ? frustrazioni linguistiche! eu.ro

    :);):D


  • User Attivo

    Il napoletano «pazzia'» (pazziare - scherzare) ed il greco «paizza'» mi sembrano un esempio evidente.